L’ACT contrasta l’evitamento esperienziale alla base della dipendenza, anche tecnologica

Tra le dipendenze del nuovo millennio, oltre a sostanze stupefacenti, alcol e fumo, sono sempre più studiate quelle legate alla tecnologia. La proliferazione di supporti e canali comunicativi che ci connettono agli altri (pensiamo a smartphone e social media) innesca in noi il desiderio di ciò che avvertiamo come mancanza: di oggetti da comprare o esperienze da vivere, di notizie su un dato argomento, di evasione dalla quotidianità. L’esasperazione della ricerca e l’allungamento del tempo di permanenza in rete possono nascondere la volontà di evitare i nostri stati interiori, specie se non ci fanno stare bene. Questo meccanismo è anche alla base di una condizione di dipendenza. Vediamo come la tecnica psicologica ACT può intervenire per arginarla.

Cosa si intende per dipendenza?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica come dipendenza una condizione fisica o psichica data dall’interazione di un organismo con una sostanza che porta al bisogno compulsivo di assumere la sostanza, sia per provarne gli effetti psichici, sia per evitare il malessere dato dall’astinenza[1].
La sostanza non è per forza materiale, può essere anche un comportamento che non riusciamo ad abbandonare.

Il libro In sostanza, Manuale sulle dipendenze patologiche (Lugoboni e Zamboni, 2018) si concentra su due dipendenze di tipo tecnologico:

  • il gioco d’azzardo patologico (GAP), una modalità di gioco ricorrente, persistente e in grado di generare forti emozioni negative come tristezza, ansia o solitudine. È uno dei disturbi del controllo degli impulsi, che comprendono alimentazione incontrollata, onicofagia (mangiarsi le unghie), tricotillomania (strapparsi i capelli) e altri gesti preceduti da tensione o eccitazione e seguiti da piacere o sollievo[2].
  • l’Internet Addiction Disorder (IAD) o comportamento di dipendenza da internet, menzionato per la prima volta dallo psichiatra americano Golberg nel 1995. Indica “un uso problematico, eccessivo o disfunzionale della rete”. La definizione è stata poi ampliata negli anni successivi per identificare un uso né pratico, né lavorativo, né piacevole di internet, ma che soddisfa una necessità impulsiva e incontrollabile. Le persone che soffrono di questa dipendenza investono molto tempo in rete, a discapito delle attività quotidiane e della sfera psico-sociale. In caso di mancato collegamento, il loro disagio raggiunge stati angosciosi e ansiosi che possono assumere le dimensioni di una crisi d’astinenza[3].
ACT e dipendenze – internet addiction disorder / foto di Becca Tapert - Unsplash

Questa seconda patologia è particolarmente insidiosa, perché grazie a strumenti che sono entrati a far parte delle nostre abitudini d’uso quotidiane (come per esempio gli smartphone) e alla pervasività degli spazi virtuali in molte delle nostre esperienze (pensiamo a quante azioni compiamo abitualmente con un click o un tap), siamo costantemente esposti al rischio.
Particolari limitazioni alle relazioni sociali di persona, come per esempio i lockdown dovuti alla pandemia di Covid-19, possono creare le condizioni ideali per un abuso della rete, specie tra gli adolescenti. Sono loro la fascia di popolazione più a rischio, perché sono nati in un mondo già digitalizzato e il confine tra online e offline è sempre più sfumato per loro. Non a caso, i nati tra il 1996 e il 2009 sono chiamati anche iGeneration.


Come si interviene a livello psicologico sulle dipendenze, tecnologiche e non?

Da uno studio su persone con dipendenza da eroina è emerso che la principale motivazione che spinge le persone sviluppare una dipendenza è la difficoltà a mettere in atto processi di coping, ossia l’incapacità di fronteggiare una situazione nuova o avversa, che ci causa stress[4]. Chi si rifugia nelle dipendenze spesso fugge da frustrazioni, dolore e sensi di colpa[5]. Mette in atto un evitamento esperienziale, con l’illusoria sensazione di stare meglio nel breve periodo, ma alla lunga sprofonda sempre di più nella sofferenza, scollegandosi dal presente.

ACT e dipendenze – evitamento esperienziale / foto di Sasha Freemind - Unsplash

Con il suo approccio orientato all’accettazione dell’esperienza dolorosa e al distaccamento dai propri pensieri, l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) va proprio nella direzione opposta: ci aiuta ad accogliere tutte le sensazioni, imparando a riconoscerle come prodotti della mente e non come fatti; in questo modo possiamo stare nel momento lucidamente (mindfulness), senza sentirci sopraffatti dal carico emotivo che porta con sé.
Attraverso il sé come contesto possiamo anche individuare i nessi tra eventi scatenanti e nostri stati d’animo e renderci conto di cosa ci fa reagire in un certo modo, senza mettere in atto meccanismi autogiudicanti.

Oltre ad aiutarci a riorganizzare il nostro rapporto con i pensieri e le nostre esperienze interne[6], un altro importante beneficio dell’ACT è quello di ridurre la percezione dello stigma sociale nella persona con dipendenza, che la limita nell’accesso al supporto di cui ha bisogno. Chi vive questa condizione, infatti, si sente spesso impotente e prova sfiducia rispetto alla possibilità di riuscire ad abbandonare modelli di comportamento dannosi. Con il suo invito ad accettarsi per quel che si è, aspetti negativi compresi, l’ACT
  • elimina le barriere iniziali rispetto alla psicoterapia;
  • permette alla persona con dipendenza di negoziare un impegno concreto al cambiamento per raggiungere obiettivi realistici[7].
ACT e dipendenze – impegno al cambiamento / foto di Andrew Shelley - Unsplash

In conclusione, la dipendenza è spesso il risultato di una strategia maladattiva di evitamento esperienziale; quella tecnologica è caratterizzata dall’impulsività e dall’incontrollabilità. L’ACT, che lavora proprio sul metterci in contatto con il presente (in termini di esperienze, pensieri e stati d’animo) è un approccio molto utile
  • per accettarci pienamente per quel che siamo senza la pretesa di rifiutare ciò che non ci piace
  • per imparare ad affrontare situazioni stressanti anziché scappare
  • per osservarci con distacco anziché agire con impulsività
  • per prendere in mano la situazione e muoverci in vista di un valore e di obiettivi raggiungibili anziché restare fermi nel nostro malessere individuale.
Vuoi capire meglio come funziona una terapia ACT orientata all’abbandono di una dipendenza? Parliamone insieme.


L'ACT dà agli adolescenti gli strumenti per orientarsi nell'incertezza

L’adolescenza è un momento di grande cambiamento nella vita delle persone: fisico, emotivo, cognitivo e sociale. È anche la fase in cui possono emergere disturbi psicosociali (ansia, depressione e disturbi alimentari i più frequenti tra i giovani). Complici il distanziamento fisico e l’isolamento dato dalla chiusura delle scuole, la pandemia ha accentuato i disagi sperimentati dai giovani. I disturbi preesistenti e quelli innescati dal lockdown col tempo si stanno stabilizzando e intensificando; servono interventi per arginarli. L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) può aiutare ragazzi e ragazze ad adattarsi al contesto senza perdersi in comportamenti a rischio, il cui richiamo è forte a questa età. Per una maggiore efficacia, è stato messo a punto un modello psicologico su misura per gli adolescenti, il DNA-V: stessi assunti dell’ACT, ma declinati in un sistema di metafore più chiare e immediate per loro.

I cambiamenti e le criticità dell’adolescenza

L’adolescenza abbraccia buona parte della nostra età evolutiva. È una fase molto delicata nella nostra vita: cambia il rapporto con noi stessi (in termini di immagine corporea, pensieri, attitudini, interesse verso la sfera sessuale) e con gli altri, in particolare con genitori e coetanei (i secondi si impongono sui primi, diventando le figure di riferimento principali).
Da adolescenti, facciamo fatica a gestire l’intensità degli stati d’animo e la mole di pensieri che ci attraversano: viviamo in bilico tra la voglia di conoscere cose nuove e la paura di perdere i punti fermi che fino a quel momento abbiamo avuto. Questo causa delle forti oscillazioni nel nostro umore, nell’autostima e nelle emozioni.

L’adolescenza è anche il periodo in cui emerge la maggior parte dei disturbi psicosociali, precisamente tra i 15 e i 25 anni[1]. I più ricorrenti tra i giovani sono:
  • ansia
  • depressione
  • disturbi alimentari

    ACT e adolescenti – oscillazioni emotive
    ACT e adolescenti – oscillazioni emotive / Foto di Ben Weber - Unsplash

Il rischio d’insorgenza di disturbi psicosociali nei giovani è aumentato durante la pandemia

Con le sue restrizioni, una su tutte l’interruzione delle lezioni in presenza, il Covid ha innalzato il rischio d’insorgenza di disturbi tra i minorenni. I dati evidenziano due tendenze:
  • una stabilizzazione di disagi potenzialmente passeggeri. Il disturbo post traumatico da stress dato dal primo lockdown (che, solo in Italia, potrebbe aver colpito quasi 1 bambino su 3) si sta trasformando in disturbo da disadattamento, con ripercussioni fisiche e cognitive[2].
  • un’intensificazione dei disturbi già presenti nel periodo precedente alla pandemia. Ansia e depressione sul lungo periodo provocano disturbi del sonno e fatica psicologica. La frustrazione innescata dall’isolamento porta anche ad episodi di aggressività domestica, perdita di autostima e comportamenti autolesionisti.
Tra marzo e aprile 2020 è stata registrata un’impennata degli accessi in ospedale di adolescenti (+50-57% in tutto il mondo[3]). In Italia si nota una preoccupante incidenza di autolesionismo marcato e tentato suicidio tra i giovani in Pronto Soccorso (il 65% dei casi tra ottobre 2020 e aprile 2021). Boom di richieste di aiuto anche per l’anoressia: +28%[4].
Come gestire al meglio le difficoltà emotive e psicologiche contingenti in un’età che è di per sé complessa?

ACT e adolescenti – stop lezioni in presenza / Foto di marco fileccia - Unsplash

Un modello psicologico mirato può aiutare i giovani ad adattarsi al cambiamento

L’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) è una tecnica psicologica articolata in tre step (accettazione del dolore, contatto con il presente, individuazione dei propri valori fondanti) che ci permette di reagire a eventi esterni adattando di volta in volta il nostro comportamento senza perdere di vista i nostri obiettivi. Può essere un valido aiuto per gli adolescenti; ora più che mai, la flessibilità psicologica può essere una risorsa per adattarsi al periodo difficile che stanno vivendo.

Per rispondere in modo mirato alle necessità dei giovani, è stato messo a punto il modello DNA-V, che li allena a padroneggiare tre competenze[5]: esploratore (D – discoverer), osservatore (N – noticer), consulente (A – Advisor). Tutt’e tre lavorano al servizio dei valori (V – values), che come nell’approccio originale dell’ACT orientano l’agire della persona.

Il consulente rappresenta la capacità di autoconsigliarci, la voce interiore che interpreta il passato, costruisce credenze nel presente, fa previsioni sul futuro. È un comportamento che mette in campo l’esperienza sotto forma di linguaggio e pensiero per capire rapidamente cosa fare. È una voce ambivalente: a volte può essere d’aiuto, altre d’intralcio. Attraverso questa metafora, l’adolescente impara che la voce interna è solo una parte di sé, non lo rappresenta nella sua interezza. Nell’ACT corrisponde all’accettazione e alla defusione.

L’osservatore coincide con l’abilità di entrare in contatto con noi stessi e con il nostro sentire; ci aiuta a sganciarci dai pensieri che ci distaccano dalla realtà. Lo fa in tre modi: raccoglie informazioni sensoriali, dalle quali capiamo come stiamo interagendo con l’esterno; ci rende consapevoli delle nostre azioni e del loro effetto sugli altri; ci fa cogliere le opportunità intorno a noi favorendo il contatto con persone, cose e luoghi. In questo modo l’adolescente non si isola nel proprio mondo interiore, ma mantiene un solido appiglio al momento presente.
Nell’ACT gli stessi concetti sono ricompresi nella mindfulness e nel sé come contesto (lo sguardo esterno con cui osserviamo noi stessi e i nostri stati interiori).

ACT e adolescenti – osservatore DNA-V / Foto di Devon Divine - Unsplash

L’esploratore ci insegna a gestire la voglia di esplorare e sperimentare il mondo. Ci guida nel testare comportamenti e cose nuove valutandone il funzionamento, ricercare valori importanti per la nostra vita, mettere a fuoco i nostri punti di forza.
Grazie a questo approccio, l’adolescente incanala la sua naturale propensione al rischio, alle novità e alle sensazioni forti in attività funzionali di scoperta. Scoperte che renderanno la sua vita gratificante e ricca di senso.
Traducendo nel linguaggio ACT, questa figura abbraccia l’identificazione dei valori e l’azione impegnata.

In conclusione, la pandemia è stata definita da alcuni psicologi un detonatore6 di disturbi tra gli adolescenti. Allo stesso modo, il modello DNA-V può essere il catalizzatore di un percorso di scoperta e messa a frutto delle loro capacità cognitive, emotive, comportamentali. Un viaggio dalla sicurezza dell’infanzia alla complessità della vita adulta, in cui la bussola per orientarsi – anche nell’incertezza più totale - sono i valori che ognuno sceglie per sé.







Stacchiamoci dalle narrazioni, passiamo ai fatti. La tecnica dell’ACT applicata al Covid

L’ACT è uno degli approcci della psicologia cognitivo-comportamentale moderna (o di terza ondata); mira a gestire in maniera funzionale pensieri o sentimenti dolorosi anziché modificarli o cercare di eliminarli. Basata su 3 pilastri (accettazione, consapevolezza, valori), si articola in 6 passi: dall’ascolto di noi stessi fino all’azione coerente ai nostri perché più profondi.
La tecnica punta a un cambio di prospettiva della persona. Maturando la capacità di adattare i propri comportamenti al contesto senza perdere di vista i propri obiettivi, essa vivrà una vita piena e consapevole. L’attenuarsi del dolore psicologico è un riflesso della flessibilità mentale acquisita. L’ACT può aiutarci ad affrontare pensieri e sentimenti legati alla pandemia, grazie al protocollo FACE COVID: 9 consigli pratici elaborati dallo psicologo Russ Harris condivisi da tutta la comunità psicologica.

L’ACT è un approccio psicoterapeutico che lavora sulla relazione che abbiamo con i nostri pensieri disfunzionali e le emozioni negative. Muove dalla premessa che la radice della nostra sofferenza sia nel linguaggio, cioè nell’insieme di processi mentali (previsioni, ricordi, piani, giudizi, confronti) che alimentano il dialogo con noi stessi. Questo dialogo interiore può restituirci un’immagine distorta della nostra persona, una narrazione che prende il sopravvento sui fatti, su ciò che siamo realmente nel presente. Solo comprendendo questa fusione con i nostri pensieri possiamo gradualmente distaccarcene.
ACT e Covid – fusione con i pensieri / foto di Charles Deluvio - Unsplash

Un altro postulato dell’ACT è che il dolore fa parte della vita. Per vivere un’esistenza soddisfacente, è più utile notarlo in noi (ossia renderci consapevoli della sua presenza) che mettere in atto dei comportamenti per evitarlo. L’evitamento finirebbe solo per amplificarlo, facendoci inoltre spendere inutilmente energie. L’accettazione di tutti i nostri stati d’animo è quindi un altro pilastro di questa teoria. Centrale è anche riuscire a individuare i valori che muovono le nostre azioni. Chiederci “perché lo faccio?” ci fa capire cosa conta davvero per noi e ci suggerisce scelte che rispecchiano i nostri valori, anche se impegnative o dolorose.[1]

Una maggiore flessibilità psicologica è a soli 6 passi da noi

L’ACT è composta da 6 passi:
  • accettazione delle esperienze dolorose come parte della nostra esperienza;
  • contatto con il momento presente (cioè accogliere le sensazioni mentali e fisiche del momento, applicando una tecnica chiamata mindfulness);
  • defusione (cioè presa di distanza dalla fusione con la nostra mente);
  • osservazione di noi stessi e dei nostri stati interiori con uno sguardo esterno;
  • individuazione dei nostri valori fondanti;
  • impegno concreto a perseguirli.[2]
L’obiettivo di questo approccio è guadagnare flessibilità psicologica: essere in contatto con il momento presente e adattarsi agli eventi e all’ambiente circostante agendo in armonia con i nostri valori (decidendo quindi di volta in volta se sia più funzionale cambiare o portare avanti un certo comportamento). La diminuzione della sofferenza psicologica è solo la conseguenza di un cambio di prospettiva più ampio: uscire dalla nostra mente per entrare nella nostra vita[3].

Come affrontare le ripercussioni emotive date dal Covid-19 con l’ACT

La pandemia, le chiusure forzate e il clima di insicurezza nel quale siamo immersi da mesi possono portarci a maturare paura, ansia, apatia, rabbia, frustrazione… Sono tanti i pensieri e le emozioni in ballo; viviamo una situazione alla quale non eravamo preparati e dalla quale non sappiamo quando e come usciremo.

Questa percezione sta avendo riscontri scientifici: un recente studio dell’Istituto Superiore di Sanità insieme all’Università della Campania[4] sul funzionamento psicosociale degli italiani durante il lockdown ha evidenziato:
  • un aumento dei livelli di ansia, depressione e di sintomi riconducibili allo stress, soprattutto nella popolazione femminile.
  • un rapporto direttamente proporzionale tra la durata del lockdown e il rischio di sviluppare sintomi ansioso-depressivi seri. 
ACT e Covid – stress popolazione femminile / foto di engin akyurt - Unsplash

Per fronteggiare questo periodo, Russ Harris (medico e psicoterapeuta inglese specializzato in gestione dello stress) ha stilato un protocollo ispirato all’ACT chiamato FACE COVID. Ogni lettera corrisponde a un’azione precisa, che adattata in italiano[5] suona così:

F - Focalizzati su ciò che puoi controllare. L’andamento della pandemia, così come i grandi cambiamenti globali e il futuro in genere non dipendono da noi. Concentriamoci sulle azioni concrete che possiamo mettere in atto qui e ora.


A – Accogli i pensieri e i sentimenti. Cerchiamo di essere consapevoli di ciò che accade dentro di noi.

Un esempio? Possiamo formulare mentalmente frasi come “Noto che sto provando rabbia”, “la mia mente sta facendo pensieri catastrofici”, “Sto provando un sentimento di frustrazione”.

C – Connettiti con il tuo corpo. Percepiamo la nostra fisicità nello spazio: facciamo respiri profondi, sciogliamo le spalle o il collo con movimenti morbidi, uniamo i polpastrelli delle mani, premiamo con le piante dei piedi a terra. Le esperienze tattili ci ancorano al presente e possono aiutarci a ritrovare la calma.

E – Entra pienamente in ciò che stai facendo. Concentriamoci sull’ambiente in cui ci troviamo e notiamo quello che ci suggeriscono i sensi. Cosa vediamo? Quali suoni sentiamo? Che odori? ecc.

C – Compi azioni mirate. Domandiamoci cosa possiamo fare nel nostro piccolo per migliorare la nostra vita e quella degli altri e agiamo di conseguenza.

Un esempio molto attuale? Rispettare le regole che prevengono il contagio.

O – Offri un atto di gentilezza e compassione. Se stiamo soffrendo, concediamoci di provare emozioni negative. Cerchiamo di avere nei nostri riguardi la stessa gentilezza che avremmo nei confronti di amici o persone care nella stessa situazione.

V – Valori. Troviamo una o più linee guida che orientino le nostre azioni: gentilezza, rispetto, altruismo, libertà… Molte cose che facciamo spesso hanno una ragione di fondo comune che ci fa stare bene con noi stessi. Perseguiamola il più possibile.

I – Individua le tue risorse. Facciamo mente locale su chi e cosa può aiutarci se ne abbiamo bisogno: parenti, amici, vicini di casa, associazioni, numeri verdi, specialisti, servizi di assistenza, ecc.

D – Disinfettati e stai a distanza. Con pochi accorgimenti possiamo proteggere noi stessi, le persone intorno a noi e l’intera comunità.

ACT e Covid - protocollo FACE COVID / immagine originale: Hey! I miss you. di Daniel Barreto per United Nation Covid-19 Response

Con queste indicazioni possiamo lavorare in modo pratico e efficace su mente e corpo nel presente e gettare le basi per un nuovo approccio futuro. Non a caso, il significato dell’acronimo ACT è Acceptance and Commitment Therapy, ossia terapia dell’accettazione e dell’impegno. Un ponte che parte dal qui e ora e ci porta passo dopo passo verso un orizzonte di vita più consapevole e gratificante.



Il senso profondo della skin hunger, la mancanza delle esperienze tattili

La pandemia limita i nostri spostamenti, le nostre relazioni sociali e i contatti fisici con le altre persone. Il senso più penalizzato è il tatto: da mesi non stringiamo mani, né ci abbracciamo. Molti di noi stanno affrontando questo momento da soli. Questa condizione altera il nostro equilibrio psicofisico e può farci sperimentare una vera e propria astinenza da contatto (o skin hunger). Una sensazione tanto intensa quanto comprensibile sul piano scientifico, alla luce delle caratteristiche che hanno permesso alla specie umana di sopravvivere e evolvere fino a oggi. Anche se in parte possiamo colmare la distanza tra noi e gli altri con la tecnologia, contrastare i disturbi legati all’impossibilità di toccarci è difficile. Difficile, sì, ma non impossibile. Ma che cos’è il tatto e perché è così importante per noi?

Il tatto è il senso che ci permette di riconoscere le caratteristiche fisiche delle cose a contatto con il nostro corpo: forma, durezza, temperatura e così via. Il passaggio di informazioni dall’esterno del corpo al cervello avviene tramite recettori; sono delle fibre nervose che percepiscono il cambio di pressione esercitato dagli oggetti anche su porzioni piccolissime di pelle. Le parti del nostro corpo più ricche di recettori (e quindi più sensibili) sono i polpastrelli, le labbra, le piante dei piedi [1].

skin hunger – tatto / Foto di Claudio Schwarz | @purzlbaum - Unsplash

Il tatto ci dà sicurezza e affetto, da quando nasciamo alla vita adulta

Nei neonati, il tatto è un senso fondamentale: il riflesso della prensione, che fa stringere la loro manina attorno al dito del genitore, è un’istintiva ricerca di sicurezza e affetto. Il calore percepito nel contatto pelle a pelle, subito dopo la nascita, stabilizza i loro parametri vitali. Crescendo, il contatto ravvicinato favorisce le capacità di apprendimento e lo sviluppo emotivo; il bambino, sicuro e protetto in braccio alla mamma o al papà, è più aperto all’esplorazione del mondo[2].

Anche la nostra vita da adulti è costellata da tante piccole esperienze tattili, come le strette di mano e le pacche sulle spalle. Gesti che hanno su di noi un effetto calmante, perché attivano i recettori di pressione, che trasportano le informazioni dalla pelle al nervo vago. Si tratta di un nervo cranico che distende il sistema nervoso, rallenta i battiti del cuore e abbassa la pressione. Grazie alle esperienze tattili, anche la produzione di cortisolo (il cosiddetto ormone dello stress) si riduce; aumenta invece l’ossitocina, altro ormone che consolida i legami e che è rilasciata in grandi quantità durante il parto e nel rapporto sessuale[3].

skin hunger – riflesso prensione neonati / foto di Aditya Romansa - Unsplash

La mancanza del tocco in pandemia abbassa le nostre difese immunitarie

Purtroppo il tatto e i suoi benefici effetti sono stati spazzati via dalla nostra quotidianità dalla pandemia. Questa mancanza, unita alla drastica riduzione delle relazioni sociali e del tempo passato all’aperto, ha delle ricadute concrete sul nostro benessere, in termini di:
  • disturbi del sonno
  • rapporto squilibrato con il cibo
  • mancanza di motivazione
Non solo. I livelli di cortisolo aumentano e abbattono le cellule natural killer: sono importantissime, perché individuano e attaccano le cellule colpite da tumori o virus. Di fatto, senza tocco il nostro sistema immunitario è più debole[4].

La condizione di sofferenza legata all’impossibilità di toccarci è quindi perfettamente normale, tanto da avere un nome: skin hunger (letteralmente fame di pelle). Come la fame di cibo, è una sensazione che si manifesta quando ci sentiamo privi di nutrimento; l’unica differenza è che, nel caso della skin hunger, il nutrimento di cui abbiamo bisogno è il contatto fisico.

skin hunger – pandemia / Catherine Cordasco per United Nations COVID-19 Response

Il nostro bisogno di contatto ha delle profonde radici biologiche

Questa esigenza è un’eredità biologica delle specie animali che trovano nella convivenza in gruppi un’arma in più per la sopravvivenza.
La centralità dell’esperienza tattile nel nostro sviluppo è stata dimostrata da un famoso esperimento condotto negli anni ’60 dallo psicologo statunitense Harlow[5].

Le madri biologiche di alcuni piccoli di macaco sono state sostituite con due tipi di surrogati materni inanimati: uno di legno e filo e uno ricoperto di gommapiuma e spugna. La funzione nutritiva è stata di volta in volta attribuita all’uno o all’altro. In tutti i casi, i piccoli preferivano accoccolarsi vicino al surrogato morbido, spostandosi brevemente solo per mangiare.

È plausibile pensare che la morbidezza dei materiali ricordasse ai piccoli macachi il calore del contatto con il pelo materno. Dall’esperimento di Harlow si deduce che:
  • affetto e vicinanza nei piccoli sono bisogni primari tanto quanto il nutrimento
  • il ruolo del genitore non si limita all’accudimento, ma deve essere sostenuto dall’attaccamento.
Queste evidenze sono ben visibili anche nella specie umana, per esempio quando il bambino instaura un legame particolare con il suo peluche. Il morbido pelo del pupazzo fa sentire il piccolo al sicuro in un momento di distacco prolungato dalle figure di riferimento, come il riposo notturno.

La tecnologia può essere un aiuto, ma non un sostituto dei contatti umani

In un periodo di distanza forzata, le tecnologie possono aiutare a colmare la mancanza, ma i sensi coinvolti in queste esperienze sono limitati: nessuna tecnologia è attualmente in grado di riprodurre il tocco umano.
Tra distanza forzata e interazione virtuale con gli altri, il rischio è di andare incontro a una società sempre più no touch: anche dopo la pandemia, probabilmente vivremo con più diffidenza la vicinanza fisica di qualcuno.

skin hunger – contatti virtuali / Nubefy Design for All per United Nations COVID-19 Response


I segnali sono già sotto i nostri occhi da tempo. Uno studio globale pre-Covid del Touch Research Institute di Field (Università di Miami) ha indagato le interazioni tra passeggeri in attesa di volare negli aeroporti. Su un totale di 4000 casi analizzati, il 98% delle volte il contatto tra le persone era completamente assente, soppiantato dall’uso dello smartphone.[6]

Per nostra stessa natura, non possiamo permetterci di abbandonare il tatto e la socialità e i lockdown ce lo fanno capire molto chiaramente.

Cerchiamo il tatto nelle piccole cose di tutti i giorni

Come si può affrontare la skin hunger durante una pandemia, soprattutto se si vive da soli? Dando spazio a tutte le tutte forme di stimolazione tattile che possiamo fare nel rispetto delle regole:
  • camminare. Come già detto, le piante dei piedi sono molto sensibili dal punto di vista tattile. Possiamo camminare nella nostra stanza (possibilmente senza scarpe, per godere a pieno del contatto con il pavimento), oppure all’aperto, per esempio su un sentiero, dove possiamo godere anche degli effetti benefici della luce del sole.
  • massaggiarsi. Nel massaggio la pelle si muove ed è sottoposta a pressione. Stimolare il cuoio capelluto o spalmarsi una crema sul viso o sul corpo sono esempi di massaggio alla portata di tutti. Sono ancora più efficaci se li sperimentiamo prima di andare a dormire: il rilassamento che se ne ricava, infatti, può favorire un sonno profondo.
  • accarezzare un animale. Gli animali possono generare in noi tenerezza e affetto e connetterci in modo profondo alle nostre emozioni, come è ampiamente dimostrato dalla pet therapy. Attraverso il contatto del suo pelo con le nostre dita, un amico a quattro zampe ci offre una piacevole occasione per ritrovare la calma.
Tutte queste pratiche attivano lo scambio di informazioni tra recettori della pressione e nervo vago, che distende il nostro corpo e migliora il nostro umore.


[6] https://www.wired.co.uk/article/skin-hunger-coronavirus-human-touch

L’ipnosi, una terapia non convenzionale per vivere meglio

Abbiamo già parlato di come l’ipnosi possa aiutare a migliorare le prestazioni sportive. Ma quali sono le altre possibili applicazioni di questo intervento? L’ipnoterapia può essere una risorsa utile per ridurre ansia e stress ed eliminare fobie e traumi; ridurre il dolore percepito nelle sedute odontoiatriche e i disturbi gastrointestinali; smettere di fumare e perdere peso. Può essere usata come terapia complementare rispetto a interventi medici convenzionali (psicologici o farmacologici), ma può dare buoni risultati anche da sola. Prendiamo in esame uno per uno tutti i campi di applicazione citati, riportando i dati scientifici a supporto della sua efficacia.

 

Ridurre ansia e stress

L’ansia è una sensazione di paura o nervosismo per un evento futuro; lo stress è una risposta psicofisica a qualcosa che accade nel presente. Nella giusta misura, possono stimolarci a impegnarci e a fare bene; diventano disturbi quando non siamo più in grado di gestirli. Nel mondo in media 4 persone su 100 soffrono di disturbi d’ansia. Le fasce più a rischio sono i giovani occidentali under 35, con un maggiore rischio tra le donne (2 volte superiore agli uomini).
Lo stress è sperimentato da 9 italiani su 10, con maggiore incidenza sempre tra donne e giovani. Un’analisi ha messo a confronto vari studi sul trattamento dell’ansia: è emerso che il 74% dei pazienti sottoposti a ipnosi ha notato un miglioramento della propria condizione nel breve periodo. La percentuale saliva all’84% nel follow-up (cioè nei controlli programmati successivi). Inoltre, l’ipnosi si è rivelata più efficace se abbinata ad altri interventi psicologici [1].

Eliminare fobie e traumi

Quando una situazione non particolarmente pericolosa genera in noi paura e ansia incontrollate, abbiamo a che fare con una fobia. L’ipnosi può aiutare il paziente a raggiungere uno stato di profondo rilassamento che crea le condizioni ideali per la Tecnica Rewind. È stata messa a punto nei primi anni ’90 e testata con successo su dei poliziotti per curare il disturbo da stress post traumatico. Funziona così: si chiede alla persona di rievocare l’esperienza traumatica nella propria mente, immaginando di guardarsi con occhio esterno mentre osserva su uno schermo la scena disturbante. Il meccanismo si ripete finché l’immagine nella mentre del paziente non lo turba più. Se la tecnica è applicata a un’esperienza destinata a ripetersi, un ulteriore passaggio prevede che la persona immagini di compiere quell’azione con successo.
curare ansia, stress, fobie e traumi con l’ipnosi / foto di Simone Viani - Unsplash

Sentire meno dolore durante una seduta dal dentista

Secondo la British Society of Medical and Dental Hypnosis (BSMDH), l’ipnosi è già usata da anni in campo odontoiatrico, con l’obiettivo primario di ridurre l’ansia [2]. Se il paziente è ansioso, la sua soglia del dolore è più bassa e può avvertire più dolore durante un intervento di chirurgia orale. L’ipnosi agisce sull’area del cervello che processa il dolore percepito dalla persona, ricalibrando le sue sensazioni [3]. Il risultato è una sensazione diffusa di calma, che aiuta a controllare pensieri, sensazioni e azioni. Anche il sistema cardiovascolare ne beneficia: frequenza cardiaca e pressione sanguigna dei soggetti ipnotizzati rimangono nella media.

Ridurre i disturbi gastrointestinali

Diversi studi negli ultimi 20 anni hanno dimostrato che l’ipnosi agisce su vari disturbi gastrointestinali, riducendoli significativamente, con buoni risultati sia individualmente che in gruppo. Questo approccio riduce il dolore fisico, migliora l’umore e la qualità della vita in generale. È adatto alle persone che non rispondono alle terapie convenzionali, poiché non invasivo.
Per la cattiva digestione e il dolore toracico non cardiaco legato al reflusso gastrico, le ricerche di Jones [4] e Chiarioni [5] hanno registrato un miglioramento
  • nel 73% dei soggetti coinvolti in un gruppo di ascolto
  • nell’80% di quelli sottoposti a ipnoterapia individuale
Nel gruppo di controllo, in cui si assumevano solo farmaci, si sono notati benefici solo nel 23% dei casi.
Filk e colleghi (2014) hanno indagato le potenzialità dell’ipnosi sulla Sindrome da Intestino Irritabile. Hanno rilevato una significativa riduzione dei fastidi a seguito di un ciclo trimestrale di ipnoterapia. Durante le sessioni venivano proposte delle suggestioni per mitigare il dolore e aumentare il benessere generale.
Gli studiosi ipotizzano che la trance ipnotica funga da analgesico per il sistema nervoso simpatico, responsabile della motilità intestinale. Attenuando la motilità, vengono meno il senso di pienezza e di disagio addominale tipici di questi disturbi.
ipnoterapia per ridurre il dolore fisico / foto di Sulis Maulida - Unsplash

Smettere di fumare

In Italia una persona su 4 fuma [6]. Circa un terzo dei fumatori prova a smettere, ma nell’80% dei casi non ci riesce [7]. L’ipnosi può essere una strada da percorrere per invertire questo trend?
Le ricerche ci dicono di sì, in vari modi:
  • in forma di ipnoterapia di gruppo, abbinata a una consulenza comportamentale più cerotto alla nicotina. I ricercatori hanno registrato un +6-8% di tassi di abbandono dopo 6 e 12 mesi rispetto alla consulenza con cerotto senza ipnosi. Minore anche il rischio di ricaduta nei soggetti con depressione [8];
  • in accompagnamento al cerotto alla nicotina o da sola nei pazienti ospedalizzati per una malattia legata al fumo. Il dato che salta all’occhio è l’efficacia sul lungo periodo di un intervento di sola ipnosi rispetto all’ipnoterapia combinata con il cerotto (36,6% contro 18,8% dei casi) [9];
  • con un trattamento individuale di poche sedute, per chiunque voglia smettere di fumare. Un campione di 30 fumatori si è sottoposto a una sessione di ipnoterapia dal proprio medico di base; 21 hanno completato il ciclo (3 sedute complessive). Al termine, l’81% di loro ha smesso di fumare e il 42% è riuscito a prolungare l’astinenza per 12 mesi. Il 95% si è dichiarato soddisfatto dall’intervento [10].
smettere di fumare con l’ipnosi / foto di Pascal Meier - Unsplash

Perdere peso

Uno studio condotto in Gran Bretagna su persone affette da obesità [11] ha evidenziato effetti benefici sul lungo termine dati dall’ipnosi. Dopo 18 mesi, le persone sottoposte a ipnoterapia di gruppo pesavano 3,8kg in meno rispetto al gruppo di controllo, che riceveva unicamente consigli dietetici.
In un’altra analisi, Pittler e Ernst [12] hanno messo a confronto diverse terapie complementari per la riduzione del peso corporeo: agopuntura, digitopressione, integratori alimentari, omeopatia, ipnoterapia. Di queste, solo l’ipnoterapia e gli integratori alimentari contenenti efedrina hanno prodotto risultati apprezzabili, seppure modesti. Poiché l’assunzione regolare di efedrina può dare assuefazione[13], l’ipnoterapia è il metodo più sicuro tra i due.
Anche in questo caso, quindi, i dati sono incoraggianti e riconoscono all’ipnosi un potenziale da esplorare, per esempio attraverso trattamenti più intensivi.

ipnosi per perdere peso / foto i yunmai on Unsplash

Possiamo concludere che l’ipnosi è un approccio sicuro ed efficace. Permette di personalizzare il trattamento (individuale o di gruppo, complementare o esclusivo) e può essere risolutivo in tempi brevi.


L’ipnosi nello sport: in cosa consiste e quali sono i suoi benefici

Quando pensiamo all’ipnosi, una delle immagini che ci viene in mente è quella del pendolo che oscilla. Se pensiamo alla tv, potremmo aver visto persone in balìa di un illusionista fare cose strane o imbarazzanti. In realtà, l’ipnosi è uno stato naturale che sperimentiamo spesso nelle nostre giornate senza rendercene conto: basta svolgere un’attività che ci assorba in maniera tale da farci dimenticare tutto il resto (leggere un libro, guardare un film, ascoltare musica, essere sovrappensiero). Possiamo quindi definirla come un’alterazione della coscienza.
La cosa interessante è che, mentre ci troviamo in questa condizione, possiamo sbloccare risorse che neanche sappiamo di avere. L’ipnosi può essere utile per modificare i nostri schemi comportamentali e raggiungere diversi obiettivi: sradicare cattive abitudini (per esempio può aiutare a smettere di fumare), ottenere prestazioni migliori. In questo articolo approfondiremo la sua applicazione allo sport. 
immagine: ipnosi – alterazione di coscienza / foto di Ben White - Unsplash

Concentrazione rilassata, fiducia in sé, immaginazione. Tutto a un livello superiore

La preparazione mentale dell’atleta è importante tanto quanto quella fisica. Abbiamo già visto come le emozioni (stress, ansia) e i pensieri (positivi o negativi) giochino un ruolo fondamentale nella prestazione sportiva agonistica. In questo quadro, l’ipnosi rappresenta un ulteriore strumento di autocontrollo emotivo e mentale prima, durante e dopo il gesto atletico, con ricadute anche fisiche.
Nello specifico:
immagine: ipnosi nello sport – flow / Foto di Markus Spiske - Unsplash
  • supporta la tecnica dell’imagery. L’ipnosi può rendere più vivida l’immaginazione; proprio l’immaginazione è al centro della visualizzazione mentale dell’atleta della sua performance (imagery). L’imagery è una tecnica di preparazione atletica mentale che rafforza la connessione cervello-muscoli; potenzia le abilità motorie, compreso il recupero dopo un infortunio. Si tratta quindi di un effetto indiretto dell’ipnosi sulle prestazioni, ma comunque importante: più la visualizzazione durante l’imagery è colorata, realistica e coinvolgente, più l’atleta ne trarrà beneficio.
  • migliora la regolazione emotiva. Il processo ipnotico è fatto di diverse fasi: rilassamento, imagery, induzione dell’ipnosi, regressione (per esempio immaginare di scendere i gradini di una scala) e individuazione del trigger. Il trigger è l’innesco - sonoro, visivo o comportamentale - di una certa risposta, fisica o mentale. Se l’atleta sa riconoscere il trigger che lo fa sentire concentrato, rilassato, sicuro, può usarlo per controllare emozioni e pensieri non funzionali alla prestazione agonistica (paura, stress, ansia, mancanza di autostima).

L’ipnosi è una pratica sicura?

Assolutamente sì, per varie ragioni. Un timore diffuso è di perdere il controllo di se stessi durante l’ipnosi. In realtà è vero l’esatto contrario: la persona che si sottopone a questo trattamento fa attenzione a tutto ciò che accade dentro di sé. Il ritmo dei suoi pensieri rallenta, in modo da osservarli uno a uno. 
immagine: ipnosi pratica sicura / Foto di MK Hamilton - Unsplash

Inoltre, non è possibile ipnotizzare qualcuno contro la sua volontà; paziente e ipnoterapeuta stabiliscono prima di iniziare cosa indagare con l’ipnosi. Durante la pratica, la voce del terapeuta suggerisce alla persona sotto ipnosi delle azioni mentali da compiere per trarre il massimo beneficio da questa esperienza. Il paziente può interromperla in qualsiasi momento, basta che apra gli occhi.