Lo sviluppo della psicoterapia cognitivo-comportamentale

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Una brutta fama accompagna gli psicologi comportamentisti: forse per il nome della loro teoria oppure a causa dei primi studi scientifici (che includevano ratti o altri piccoli animali), ancora oggi sono ritenuti terapeuti che considerano l’essere umano come un animale da addomesticare o al massimo come un computer in cui inserire dati e attendersi una risposta; questo nonostante i numerosi protocolli confermati da studi rigorosi per la psicopatologia. Ma che cos’è la psicologia cognitivo-comportamentale e com’è cambiata dagli inizi al giorno d’oggi?

Prima ondata del cognitivismo: conta ciò che è osservabile e misurabile

Tra gli anni ‘50 e ’60 del Novecento una serie di psicologi (tra i quali Watson e Skinner) cercarono di proporre un’alternativa clinica all’unica terapia che allora si conosceva, quella psicodinamica. Questo esordio viene chiamato prima ondata della teoria cognitivo-comportamentale e si basava soprattutto sul comportamento osservabile del soggetto, tralasciando quello privato (pensieri, opinioni, emozioni). Nonostante questa lacuna, essa ha portato alla scoperta di modalità terapeutiche che ancora oggi sono largamente utilizzate in clinica e in psicologia sociale: per esempio la tecnica del rinforzo, il condizionamento operante, l’estinzione. Ma la caratteristica principale di questa corrente sta proprio nella priorità che essa dà alla validazione scientifica dei propri protocolli di intervento.
immagine: cognitivismo - comportamenti osservabili / Photo by Matthew Henry on Unsplash

Seconda ondata: stati interiori e pensiero irrazionale

Continuando a studiare la mente dell’uomo e la sua risposta alla psicoterapia comportamentale, intorno agli anni ‘60 si è giunti alla seconda ondata, chiamata cognitivismo standard: in questa fase si distinguono particolarmente Neisser (considerato il fondatore del movimento cognitivista) e Beck (il primo terapeuta a mettere a punto le basi della terapia cognitiva).
Nel cognitivismo standard l’attenzione non è più centrata solo sul comportamento osservabile, ma anche sui moti interiori del soggetto: diventa sempre più importante il concetto di pensiero irrazionale, ossia una credenza molto rigida sulla quale il paziente e lo psicologo si confrontano in terapia per confutare la convinzione distorta del primo, attraverso tecniche come il disputing e il dialogo socratico.

Negli anni seguenti all’elaborazione di Beck, anche Ellis fondò la sua nuova terapia, chiamata Rational Emotive Behavioral Therapy (REBT), anche questa non centrata unicamente sul comportamento esterno, ma focalizzata sulle emozioni come motori del comportamento.
immagine: cognitivismo - emozioni motore comportamento / Photo by Camilo jimenez on Unsplash

La situazione oggi: terza ondata e ACT

Attualmente la psicologia cognitivo-comportamentale sta vivendo la sua terza ondata; essa comprende:
  • la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT)
  • la Dialectical Behavior Therapy (DBT)
  • l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT)
La grande innovazione di questa terza generazione è che l’obiettivo non è modificare le emozioni dolorose o i pensieri, ma imparare a gestirli in maniera più funzionale.
L’ACT, sviluppata alla fine degli anni ‘70 da Hayes, è basata sull’idea che la psicopatologia deriva dal tentativo controproducente di evitare o sopprimere stati interni (pensieri, emozioni, sensazioni corporee). Essa si fonda su sei processi-chiave, che delineano due aree:

1° - ACCETTAZIONE e MINDFULNESS
  • Accettazione
  • Defusione
  • Contatto con il momento presente
2° - AZIONE
  • Valori
  • Impegno
  • Consapevolezza
Particolarmente importante tra questi processi è quello della defusione, che consiste nell’imparare a notare i nostri pensieri, immagini o ricordi dolorosi o ansiogeni riconoscendoli per quello che sono, ovvero prodotti della mente e non verità assolute. Guardando le nostre esperienze interne da una posizione decentrata, acquisiamo una maggiore consapevolezza di ciò che è reale e ciò che invece è mentale.
immagine: cognitivismo: gestione dolore / Photo by Lizzie on Unsplash;

Dall’eliminazione alla gestione di sofferenze e pensieri

L’obiettivo dell’ACT è quello di:
  • promuovere la flessibilità psicologica del soggetto, ossia la sua capacità di essere in contatto con il momento presente fermando il continuo movimento della mente che oscilla fra scenari catastrofici futuri e perdite inguaribili del passato;
  • incrementare l’abilità di problem solving, quella cioè di trovare diverse risposte ad un problema, sapendo desistere se inefficaci, ma anche resistendo nei comportamenti orientati dai propri valori.
L’ACT si propone di raggiungere queste competenze psicologiche in due modi:
  1. Riducendo l’investimento su scopi non ottenibili
  2. Promuovendo l’azione orientata verso i propri valori e scopi
Secondo la teoria dell’ACT, un grande generatore di sofferenza per l’uomo è l’evitamento esperienziale, ossia l’insieme di strategie che mettiamo in atto per controllare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi). Lo scopo è allontanare con tutte le forze ciò che per noi è doloroso e che riteniamo insopportabile. L’alternativa è l’accettazione, ossia provare ad accogliere l’emozione di sofferenza, ansia o frustrazione impegnando le nostre energie nel comprendere cosa possiamo fare in questa situazione per raggiungere i nostri scopi, piuttosto che disperderle cercando di fuggire da noi stessi.
La seconda parte di una terapia fondata sull’ACT prevede la capacità di pianificare e mettere in atto azioni orientate verso uno scopo e dai valori personali; valori che, per l’ACT, sono «qualità della vita desiderate a lungo termine» (Hayes et al., 2006).

Ti incuriosisce capire come funziona una terapia di questo tipo? Sentiti libero/a di contattarmi.