Le scuse più frequenti per non andare dallo psicologo (parte 1)

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Ai giorni nostri l’idea per cui non si va dallo psicologo perché “si occupa dei pazzi” sembra abbastanza superata, soprattutto fra i giovani. Ormai sappiamo che i problemi psicologici occupano un ampio spettro: dalle malattie veramente gravi, come le psicosi (che dal punto di vista farmacologico necessitano senz’altro dello psichiatra, ma possono essere gestite dal punto di vista comportamentale anche dallo psicologo) al sostegno psicologico, che può essere utile in alcune fasi della vita anche senza la presenza di una patologia.
Per esempio: la sofferenza dopo un lutto non ha nulla di patologico, ma il soggetto potrebbe desiderare di parlarne con uno psicologo per cercare con lui il significato di un evento tanto doloroso.
Proprio all'interno di questa seconda categoria di problemi si registra una maggiore resistenza ad andare da uno psicologo. Le principali motivazioni di rifiuto che le persone adducono in queste circostanze sono varie, ma ricorrenti; in questo articolo ne indagheremo due:

Motivazione #1: devo farcela da solo (la paura di apparire deboli)

immagine: voler farcela da soli - motivi per non andare dallo psicologo_SGLpsicologa / Photo by mari lezhava on Unsplash
Perché devi farcela da solo? Perché affrontare un lungo periodo di sofferenza, ansia, rabbia, panico, con tutte le ricadute che questi stati possono avere sulla nostra salute (insonnia, inappetenza o fame nervosa, disturbi gastrointestinali, emicranie, cefalee) e sulla nostra quotidianità (perdita della concentrazione sul lavoro, nervosismo con il partner e/o i figli, distrazione alla guida)?
La risposta che di solito viene data è che avvertire il bisogno di un sostegno psicologico fa sentire la persona “debole”. Ma è la contemporaneità a imporre un’idea distorta del concetto di debolezza: riconoscere i propri limiti non è da deboli, piuttosto non affrontarli significa mentirsi. Confrontarsi con essi non è da deboli; negare la parte fragile di noi stessi che tutti sappiamo di avere significa temerla.

La nostra società confonde il concetto di autonomia con quello di autosufficienza: l’autonomia è auspicabile e raggiungibile attraverso la crescita; è una parola che deriva dal greco e significa “darsi le proprie regole”, ossia riflettere soggettivamente sui propri valori. È una capacità che tutti cerchiamo di passare alle nuove generazioni.
L’autosufficienza, invece, significa “bastare a se stessi”, ma questo proposito è semplicemente un falso. L’uomo, come ci insegna Aristotele, è un animale politico e da solo non sopravvive. Far coincidere autosufficienza e forza non fa altro che renderci sempre più fragili: l’individuo, pur accorgendosi di non farcela di fronte a certe situazioni, non può chiedere aiuto, perché chiedere aiuto equivarrebbe a un fallimento rispetto al conseguimento del proprio irraggiungibile obiettivo, il quale (proprio in quanto irraggiungibile) è destinato a sfuggirgli continuamente, aumentando la sua frustrazione. In questo modo la persona rimane legata al suo problema iniziale e in più ne acquista un altro: la minaccia di vedersi debole, situazione che reputa intollerabile.
immagine: autosufficienza e frustrazione_SGLpsicologa / Photo by Yousef Espanioly on Unsplash
Va bene far passare un po’ di tempo dopo un evento doloroso o una situazione critica, va bene monitorare il proprio stato interno ed esterno prima di rivolgersi a uno specialista. Quando però questo periodo si prolunga oltre le normali tempistiche, bisogna essere davvero coraggiosi e cercare di capire dov’è il blocco. Per valutare quando è il momento di cercare un confronto, possiamo basarci sull’autovalutazione: il peggioramento della propria quotidianità è un segnale importante che richiederebbe un intervento per fermare il crescente stato di disagio (prima di tutto da parte del soggetto, che deve prendere in mano la situazione). Il miglioramento delle proprie condizioni interne e esterne, invece - anche se l’evento non è ancora totalmente risolto -, si può considerare un segnale di progresso verso il superamento e la crescita personale. In ogni caso uno psicologo potrà valutare il caso che il cliente propone e rassicurarlo circa le reazioni emotive che sta provando, oppure consigliare un percorso che lo aiuti a sentirsi meglio.

Motivazione #2: non ho bisogno dei consigli di un estraneo

immagine: niente consigli da un estraneo - motivi per non andare dallo psicologo / Photo by Rhys EST2018 on Unsplash
Probabilmente questa obiezione deriva da una scarsa conoscenza della figura dello psicologo: infatti questo professionista non dà consigli; è un atteggiamento che manifesta difficilmente, anche quando i consigli gli vengono esplicitamente richiesti. Lo specialista non ha le risposte a tutte le difficoltà della vita, soprattutto perché gli eventi che capitano nell’esistenza delle persone vengono vissuti da ciascuna di loro in maniera del tutto soggettiva. Come potrebbe uno psicologo possedere un rimedio universalmente valido per ogni dolore e ogni individuo?

Il compito del terapeuta di fronte a una richiesta di sostegno è capire insieme al paziente perché quanto è accaduto ha generato lo stato di disagio che sta vivendo e dov’è il blocco che ne impedisce il superamento. Le tecniche che utilizza sono utili a entrambi (psicologo e paziente) per comprendere meglio la mente e le dinamiche del soggetto in difficoltà.
Se vogliamo disegnare la piantina di una città ci sarà più facile riprodurla dall’alto (come la vedremmo da un aereo) anziché da terra (come se ne percorressimo le vie). Allo stesso modo, insieme allo psicologo possiamo cercare di osservare la nostra mente e individuare i pensieri, le paure, le convinzioni che bloccano la nostra evoluzione e organizzare insieme una strategia per superarle. Non ci sono consigli, c’è un lavoro svolto insieme per raggiungere un obiettivo: il benessere psicologico della persona.

Se senti che c’è qualcosa che non va nella tua vita e vuoi tornare a stare bene, smetti di aspettare; chiedi subito aiuto.